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Gomitolo n. 10. La sedia a dondolo

18 settembre 2010

Ci guardammo per l’ultima volta attraverso il vetro graffiato della metropolitana.

Non ci furono altre parole fino a un sabato mattina di dodici anni dopo.

Risposi al telefono fiaccamente mentre cercavo di distanziarmi dal sonno sfuggendo alle coperte, con gli occhi ancora chiusi e le mani molli.

Mi arrivavano parole avvolte nel cellophane e faticavo a capirne il senso, ma più quella voce si faceva nitida, più la stanza riacquistava tutti i colori del giorno.

Avevamo condiviso un rapporto denso e spudoratamente simbolico: il primo amore, per entrambi. Eravamo cresciuti dentro un sentimento che ci modellava ogni giorno, che ci scopriva sempre in attesa e desiderosi di appellarci con forte slancio al non ancora vissuto.

Era in città e sarebbe passato per un saluto.

Un’ora prima dell’appuntamento ero pronta. Mi ero truccata lentamente in una di quelle giornate in cui il colore si stende pieno sulla pelle riposata, i capelli prendono docilmente la piega sotto i gesti addestrati dalla consuetudine e hai un nuovo paio di scarpe mai ancora indossato.

La caffettiera era già pronta sul fornello e, dopo la seconda sigaretta spenta a metà nel posacenere smaltato di rosso, io avevo il ghiaccio nel sangue.

Mi misi seduta sulla vecchia sedia a dondolo, ampia e accogliente, un po’ una cuccia un po’ capriccio. Mi dondolavo con le gambe stese e guardavo le mie scarpe nuove: belle, lucide, alte. Mi stringevano. Le sfilai.

Non c’entravano niente quelle scarpe con noi. I nostri piedi erano spesso nudi nelle lunghe passeggiate sulla sabbia e sull’erba, sui pavimenti freschi d’estate, nei viaggi in cui non smetti mai di camminare perché cerchi di catturare con gli occhi il più possibile.

Avevo il respiro spezzato da una appuntita agitazione per il timore di incontrare me stessa a vent’anni e misurare la distanza che mi separava da giorni che profumavano di università, di treno e di baci rubati. Mi contorcevo nella pavida euforia di riappropriarmi di sensazioni dimenticate. Si trattava di me. Non di noi. Non di lui.

Avevo riposto il ricordo del nostro amore in un cofanetto prezioso in fondo a un cassetto, quasi fosse una collana di perle. Ci eravamo allontanati in silenzio perché non avevamo più parole da mettere fra di noi, eppure il mio corpo, preso alla sprovvista quel sabato mattina, non riusciva contenere tutti insieme i ricordi di tanta vita. Avrei dovuto indossare la collana di perle e avevo paura di sentirmela addosso.

Raccolsi le ginocchia al petto e strinsi le gambe fra le braccia. Fra il dondolio e la musica mi addormentai.

Il citofono, petulante come un allarme metallico, mi fece sobbalzare interrompendo definitivamente quel tempo sospeso.

Mi alzai in fretta, non misi le scarpe, lo specchio dell’ingresso mi rifletteva spettinata, con il trucco un po’ sbiadito e gli occhi arrossati.

Dietro la porta il suo sorriso. E io smisi di respirare.

6 commenti leave one →
  1. 19 settembre 2010 10:21

    La cura della preparazione dell’incontro non sembra poi così fredda come il ghiaccio nel sangue..

  2. 23 settembre 2010 07:52

    anche con te mi tocca dirlo, urge il proseguo, che mi è rimasta la voglia di capire che succede 🙂

  3. Jessica Carrieri permalink
    23 settembre 2010 08:38

    🙂 sì ci pensavo, è che un po’ mi frena il fatto che possa leggermi 😉

  4. 23 settembre 2010 09:23

    Emozionante… la “sottotrama delle scarpe” dice così tanto.

  5. Jessica Carrieri permalink
    23 settembre 2010 09:28

    🙂 quando si aveva fiato per correre e buoni piedi per andare

  6. 30 settembre 2010 08:24

    A volte sembra proprio che certe vite siano l’incrocio, l’incontro di due errori.
    Due errori riparabili.

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