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Seicento chilometri a Natale

24 dicembre 2010

Torcevo il collo in maniera impercettibile spingendo lo sguardo verso il lato del conducente per controllare di continuo l’orologio digitale sul cruscotto, il contachilometri e l’indicatore di velocità. E in quell’allineamento di numeri che variavano di poche unità ogni volta che spegnevo una sigaretta, mi perdevo in un torpore tiepido e sordo che lasciava fuori il mio amico che guidava ormai da ore. Così, perché Luca mi sentisse presente, aprivo con cadenza regolare il finestrino e facevo entrare l’aria gelida di quel dicembre infinito e presuntuosamente piovoso.

Luca passò a prendermi quel pomeriggio della vigilia di Natale, verso le cinque. Ero preoccupata e dispiaciuta per non aver pensato, anche solo per un momento, a quella eventualità. Doveva nascere all’inizio del nuovo anno e, invece, Elena mi chiamò dopo pranzo per dirmi che aveva le contrazioni e andava in ospedale.

Attraversammo diversi paesi prima di imboccare l’autostrada. Tutti accesi di luminarie di ogni sorta, brulicanti di passi svelti, affollati di bocche rumorose e scoppiettanti come pop corn in un tegame bollente. Sprofondata nel sedile sorridevo davanti a quel paesano balletto scomposto nel quale riconoscevo le timide aspettative e le speranze, camuffate da istituzionale eccitazione prenatalizia, che siamo soliti affidare agli ultimi giorni dell’anno. Mi sorprendevo ogni volta nel constatare quanta gente a Natale affollasse i paesi del sud nei quali anche io ritornavo, in fondo, per prendere parte al clima festoso e familiare della mia terra che profumava di buono in ogni suo vicolo fra vapori di olio fritto e zucchero sciolto dei dolci tradizionali.

Arrivammo in ospedale alle undici passate. Era già nato.

La stanza di Elena era calda e Il suo viso nascosto dal camice del medico che la stava visitando. Sentivo il suo profumo. Lentamente si spostò verso un lato del letto e ci guardammo. Aveva gli occhi gonfi e lucidi, era visibilmente stanca, ma tranquilla. Mi sorrise e io finalmente mi rilassai cercando di rimanere dritta sulle gambe che un po’ cedevano. La vidi farsi concava e allargare le braccia  mentre l’infermiera ci passava accanto con suo figlio in braccio. E poi divennero una cosa sola, morbida e calda, mentre, incuranti degli astanti, si abbandonavano l’uno all’altra quasi addormentandosi.

Elena e Francesco riempivano tutta la stanza, completamente. Incorporea, come se avessi ingoiato una nuvola di euforia che non mi faceva quasi toccar terra, spinsi piano Luca verso la porta. I nostri abbracci potevano aspettare. Era più importante per loro vivere da soli quel momento esatto in cui si erano trovati, ormai, per tutta la vita. Elena lo aveva atteso, voluto, amato da subito, anche quando il suo compagno l’aveva lasciata molti mesi prima. Elena, caparbia, che aveva lavorato fino all’ultimo momento per ingannare l’attesa e non farsi fagocitare dall’ansia, dalle mancanze e dalla solitudine. Elena che bastava a se stessa anche se condivideva tutto con me. Elena, la mia amica, che era diventata mamma e lo sarebbe stata per sempre.

Guardavo gli occhi umidi del mio amico sempre composto e mi sentivo felice. Sedemmo su una panchina a bere cioccolata calda e merendine del distributore automatico. E mentre le nostre chiacchiere in dialetto e le nostre risate riempivano quel corridoio vuoto, mi resi conto che noi assegniamo quasi sempre al Natale una dimensione temporale, più o meno consapevolmente.

Ma in quell’ospedale non abitato dal tempo dove la mezzanotte era passata senza regali, fuochi di artificio o laute cene in compagnia, per la prima volta, pensai al Natale come a uno spazio.  Anzi, forse aveva a che fare con qualcosa di simile alla geometria: la circonferenza di un abbraccio, le pareti quadrate di una stanza asettica, una strada asfaltata che, come una linea immaginaria, unisce i punti della nostra più esposta emotività disegnando la mappa di una memoria affettiva. Proprio come quel nostro Natale che, cominciato da una indicazione stradale, era la proiezione di una direzione, il risultato di uno spostamento nello spazio, dal sud al nord, lungo seicento chilometri.

Buon viaggio o, se preferite, buon Natale.

Questo è il mio piccolo contributo per il PslA (Post sotto l’albero), una bellissima raccolta di scritti e immagini sul tema del Natale che ogni anno il Sir impacchetta e ci regala.

Scaricatelo, leggetelo e regalatelo perché ha un buon profumo.

Scarica qui il Psla 2010

4 commenti leave one →
  1. 24 dicembre 2010 14:49

    Di Elena caparbia ne conosco un’altra.
    Bellissimo questo racconto! Grazie per avercelo regalato!

    Buon viaggio Iskah.. 🙂

  2. Jessica Carrieri permalink
    26 dicembre 2010 10:53

    Buon viaggio anche a te:) Lo sai che sei l’unica Elena che conosco? ^___^

  3. Peppermind permalink
    27 dicembre 2010 21:01

    Bello questa natività pagana, attuale… femminista… cruda come quella cristiana, ma con il suo spazio di calore: uno tutto suo.

  4. 19 gennaio 2011 21:40

    Certo che però un post ogni tanto lo potresti anche scrivere, qui è così silenzioso…

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